Quel giorno il pranzo di famiglia si era trasformato prima del solito in una strana danza dove, anziché movimenti di gambe e di bacino, i passi consistevano in frenetici passaggi di boccette d’olio, aceto, saliere, bottiglie d’acqua e bicchieri. Movimenti che facevamo solo ed esclusivamente per circumnavigare la scomoda conversazione che volevamo evitare.
Già al mio arrivo avevo avvertito una leggera patina di nervosismo che per tutta la durata del pasto aleggiò nell’aria e che ignorammo trangugiando i manicaretti preparati da mia madre. Il litigio era ancora nell’aria, si respirava, e questa volta doveva avere qualcosa a che fare con le patate al forno che una volta – non ricordo più nemmeno quando – avevo detto a mia madre piacere e che mio padre, in quell’occasione, aveva dimenticato di comperare.
«Avevi solo un compito. Uno!» gli ripeté mia madre a più riprese e a denti stretti.
Mio padre cercò di giustificarsi sbofonchiando parole a caso con tono incerto, cercando appigli sulla grafia – oggettivamente incomprensibile - di mia madre o sui supermercati di oggi, pieni di colori e robe inutili, dove non si riesce a capire più niente.
Il mio unico compito, invece, era sempre il solito: portare i pasticcini. Mansione che posso dire con orgoglio di aver sempre portato a termine anche grazie al prezioso contributo di Rosario, il pasticciere siciliano sotto casa mia, che ogni domenica mattina proponeva la sempre vincente formazione titolare: quattro cannoncini – due alla crema e due al cioccolato, - nelle retrovie, due babà sulla mediana, tre bignè sulla tre quarti e la cassatina – la preferita di mio padre, - davanti a tutti come solo i migliori centravanti.
Come si fa con le medicine, somministravamo le conversazioni solo prima o dopo i pasti. Le chiacchiere riguardavano perlopiù il lavoro – il mio -, il calcio e tutte quelle cose a cui pensavo senza mai far nulla a riguardo. Il vassoio diventava l’oasi dorata su cui trovare rifugio dopo una mezz’oretta buona di accondiscendenza, rimproveri sconnessi e i bisticci dei miei genitori. La pausa più lunga eravamo soliti prendercela per il caffè, subito dopo i pasticcini, e una volta bevuto, mio padre si stendeva sul divano a guardare la Serie A o la Formula Uno mentre io e mia madre ci spostavamo in cucina.
Le mamme, seppur a modo loro, sono tutte uguali: quando te ne vai e vivi finalmente da solo cominciano a viziarti. Quando si è grandi e troppo orgogliosi, sono queste le loro coccole, e lei me le faceva invitandomi a stare tranquillo e seduto, perché avrebbe pensato lei ai piatti e le tazzine. Questi erano i momenti più intimi, dove il silenzio veniva interrotto solo dal russare di mio padre, e mia madre, più che confidente, si trasformava in una psicologa attenta e premurosa, pronta ad ascoltare e dispensare consigli anche quando non richiesto.
Le sedute insieme a mia madre si concludevano con l’abbaiare di Italo, il loro e nostro bassotto, che saltellando implorava di essere portato a spasso. La passeggiata durava più o meno il tempo di una sigaretta, con il fumo che scendeva lungo gola, bronchi e polmoni con fare liberatorio. Era una pausa necessaria, non solo per staccare dai miei genitori, ma anche per riscoprire il mio passato, girando intorno a tutti quegli oggetti e quei luoghi che avevano segnato la mia infanzia e che sembravano invecchiare insieme a me. I due alberi che usavamo come porte adesso si erano ingrigiti, la panchina dove diedi il mio primo bacio ora era colorata dalla vernice di bombolette spray a basso prezzo mentre il cancello dove quello che pensavo amore era finito – e dove avevo creduto che la mia vita fosse finita per sempre, - si era colorato del bronzo della ruggine. Tutti quei ricordi mi regalavano quella piacevole nostalgia per una vita in cui il problema principale era ancora combattere la noia piuttosto che pagare le bollette o fare preventivi per mobili, polizze assicurative o fondi pensionistici.
A mia madre non piaceva che fumassi, e al mio ritorno me lo faceva notare storcendo il naso e lamentandosi per la puzza di sigaretta che, non avendo il vizio, percepiva molto più di quanto potessi fare io. Lasciava sempre correre, i suoi rimproveri erano genuini ma scaturivano perlopiù in un senso di dovere da madre, che a una vera e propria preoccupazione. Intanto, in sala mio padre si era svegliato e guardava la partita – qualsiasi partita, - appoggiando i gomiti alle ginocchia, la schiena un po’ curva e lo sguardo costantemente crucciato.
Più passavano gli anni e più mi sembrava che il suo interesse per il calcio ardesse ancora in lui al solo scopo di inventarsi commenti sempre più fantasiosi e creativi su quanto il calcio fosse meglio ai suoi tempi. Partiva sempre parlando di Maradona o Van Basten - che, a parer suo, si sarebbero messi nel taschino tutti i difensori di oggi -, prima di partire con il solito pippone su Sacchi, l’unico allenatore ad aver capito come funziona davvero il calcio. Secondo lui il calcio di oggi è fin troppo ordinato, troppo studiato per i suoi gusti. Diceva che, più che degli allenatori o i calciatori, la colpa era di tutti quei soldi, perché sono quelli a togliere l’anima e la passione alle cose. Faceva questi commenti con sorprendente genuinità, quasi non si rendesse conto di cosa stesse realmente dicendo o intendendo.
Il calcio era ormai l’unica cosa che ci avvicinava davvero. Erano anni che non riuscivamo a trovarci su praticamente nulla. È così che il calcio era diventato la nostra metafora della vita. L’universo visto attraverso un pallone. Le sue lamentele contro i giocatori che se ne andavano a giocare in Arabia Saudita per ingaggi stellari, era il modo che aveva per dirmi che i soldi non sono tutto nella vita. Aiutano, quello sì, ma non possono – non devono, - essere tutto, sia quando sono tanti che quando sono pochi. Nelle rincorse per recuperare palloni inutili o evitare rimesse laterali, vedeva l’apice del sacrificio dell’individuo per il bene della collettività, nei calci di rigori sbagliati il coraggio degli umili. Lezioni di vita che non sarebbe mai stato in grado di tradurre diversamente.
Gli ultimi quindici minuti della partita mio padre li passava puntualmente dormendo e – quando il finale era prevedibile o poco entusiasmante, - tornavo in cucina da mia madre che, intanto, aveva pulito in modo impeccabile la cucina. Ne approfittava per tirare fuori una bottiglia di limoncello che bevevamo insieme in piccoli bicchieri di cristallo. Quello era il momento in cui ci scambiavamo i ruoli e lei da terapeuta diventava paziente. La maggior parte dei discorsi cominciavano con frasi del tipo però, lo sai com’è tuo padre o ultimamente la schiena mi fa più male del solito o con la conta dei giorni che le mancavano alla pensione, traguardo che ancora oggi faccio fatica a capire se si tratta di un suo recondito desiderio o incubo atroce. Il triplice fischio sanciva sia il termine della partita che quello dei nostri pranzi domenicali, che concludevamo con imbarazzo sul pianerottolo in attesa dell’ascensore.
Quella domenica mi fermai al bar storico sotto casa per comprare le sigarette, me ne erano rimaste giusto un paio nel pacchetto. Salutai Beppe, il proprietario, e vederlo mi diede la stessa impressione di quando si vede un vecchio professore anni dopo aver terminato la scuola. Dietro al bancone, di fianco a lui, c’era anche Clarissa che lavorava lì da quando lo frequentavo io e che ancora non avevo visto così… cresciuta. Aveva lo stesso corpo snello e il taglio di capelli sbarazzino. Indossava una semplice maglietta nera sbiadita e sul viso non aveva più il trucco pesante che ai tempi metteva per nascondere acne e brufoli. Uscì a fumare una sigaretta con me e sentirla parlare, raccontarsi con la genuinità degli studenti universitari fu una piacevole boccata d’aria fresca che preferii non rovinare con i diversi commenti che mi venivano in testa e che mi facevano sentire così vecchio e pesante. Parlammo per un bel po’ appoggiati sui tavoli in plastica appena fuori, dentro al bar c’erano i soliti vecchi. Gli aggiornamenti sulla mia vita la delusero, glielo si leggeva in faccia, anche se fece di tutto per non farmelo notare e sentii la necessità di spostare di nuovo la conversazione su di lei.
Sognava di diventare avvocata, non lo sapevo. La mia amicizia con lei era sempre stata un contorno. Consisteva perlopiù in battute provocanti che dicevo solo per fare lo splendido davanti agli amici e le storie che ci raccontavamo dicevano poco di noi. Questa volta, però, le cose sembravano cambiate. Lei mi diede il suo numero di telefono, nonostante ci seguissimo già sia su Facebook che su Instagram, e mi chiese di scriverle uno di quei giorni, aprendo una porticina che credevo chiusa per sempre. Mi salutò con un bacio sulla guancia e un abbraccio che interruppe con un sospiro volutamente rumoroso. Mi bastarono due passi per cominciare a pensare a cosa avrei mai potuto scriverle per convincerla ad uscire con me. Poi la sua voce così bella, così soave, ruppe quella fasulla tranquillità che io, mia madre e mio padre recitavamo ormai da anni.
«Mi dispiace molto per tuo fratello. Era un bravo ragazzo,» poi non continuò la frase, come se anche lei avesse capito essere fuori posto. Sorrise e tornò dentro al locale.
Sai, quel giorno non ti avevo ancora pensato, è una bugia, ma sai com’è, specialmente la domenica, se fossi stato lì, lì con me intendo, mi avresti detto che quel numero me l’ero procurato grazie a te, grazie alla pena che un fratello morto infonde alla gente, alla mia faccia da cane bastonato, e la verità è che ti avrei dato ragione ma la verità ancora più vera è che quella frase, detta così, quasi per educazione, aveva interrotto il mio incessante flusso di pensieri che sfruttavo pur di non ascoltare quel silenzio vertiginoso che la tua assenza/presenza aveva sempre creato in me e lo sai era più facile affrontare le domeniche i pranzi le partite i giorni quando c’eri anche tu, una volta eri tu il centro delle conversazioni, il centro dell’attenzione, con le stanze che si illuminavano quando ci entravi e, diciamocelo, sei sempre stato più bravo di me a rendere divertenti i rimproveri e i bisticci dei nostri genitori, io non so come si fa, ancora adesso. Dopo che sei scomparso, la vita scorreva sempre allo stesso ritmo come le lancette di un orologio e, pure adesso che non ci sei, ti invidio ancora, tutti lo facciamo a dire il vero, perché ci vuole coraggio per vivere e, col senno di poi, il tuo vero errore è stato quello di essere stato troppo avido nel farlo, anche se questo forse non lo sapremo mai, la fine della tua storia è stata l’unica che non ci hai voluto raccontare. Scusami, avrei voluto essere più presente. Scusami, se non ti ho mai capito veramente.
Scrissi a Clarissa un martedì sera. Ero fuori dal giro degli appuntamenti da un bel po’ e pensavo che la prassi fosse ancora quella di aspettare qualche giorno prima di farsi vivi, anche se a quanto pare non era più così. Ci incontrammo quel venerdì dopo il lavoro per bere una cosa in centro. Clarissa indossava un bel vestitino aderente con una giacca di jeans che teneva appoggiata alle spalle, con le maniche che dondolavano ad ogni suo passo, mentre ai piedi aveva le solite Vans. Era così bella che quando salì in macchina mi sentii in qualche modo intimorito e non ti dico nemmeno la paura che provai quando capii che era anche parecchio sveglia, sicuramente molto più di me.
A metà serata, dopo aver bevuto un paio di birre e un gin tonic con un ramoscello di rosmarino che affogava tra i cubetti di ghiaccio – sì, era uno di quei locali che tanto odiavi -, sei spuntato un’altra volta dalle sue labbra, e la tua assenza si trasformò in un attimo in presenza.
«È vero che non si sa come sia morto?» mi chiese Clarissa con incredibile rispetto, con il genuino timore di apparire troppo invadente.
Le risposi che sì, effettivamente non sappiamo come sei morto. Aggiunsi persino che non sappiamo nemmeno se lo sei davvero, visto che il tuo corpo ancora oggi non è mai stato trovato. Dovevi vederla quando glielo dissi: i suoi occhi acquisirono improvvisamente quella luce che non ero riuscito a guadagnarmi con tutte le battute stupide che le avevo fatto fino a quel momento. Storie come queste – come la tua, intendo, - che sembrano appartenere più al mondo del cinema che a quello reale, danno una spruzzatina di brio al mondo nella loro tragicità, rendono interessanti anche le vite che le circondano che altrimenti descriverei solo come noiose.
«Pensa che per riempire la bara, ognuno di noi ha messo qualcosa che pensava gli avrebbe fatto piacere ritrovare. Sai, semmai dovesse tornare.»
«E te che cosa ci hai messo?» chiese curiosa dopo aver accavallato le gambe e inumidito le labbra con la lingua.
Prima di risponderle feci un sospiro profondo e guardai in alto come a trattenere le lacrime. Una prestazione da Oscar, ne saresti stato orgoglioso.
«Una bussola.»
L’oggetto, metafora di viaggi e vita, equilibrio e follia, che ti avrebbe permesso di tornare e cercare quello che pensavi di voler trovare prima di abbandonarci. Inutile che te lo dica, tanto lo sai che era una cazzata. Era la prima cosa poetica che mi venne in mente per impressionarla. Non me ne volere, ma dirle la verità, ovvero che anziché una bussola avevo messo la playstation – la uno oltretutto, - con il cd masterizzato di Crash Bandicoot con il quale giocavamo tutti i pomeriggi mentre aspettavamo che i nostri genitori tornassero a casa da lavoro, non credo avrebbe avuto su di lei lo stesso effetto. In effetti funzionò, perché lei si avvicinò toccandomi una gamba e mi guardò intensamente con gli occhi lucidi, dandomi l’inconfondibile segnale che un bacio quella sera sarei riuscito a strapparglielo.
Finito di bere, facemmo un giro largo per raggiungere la macchina parcheggiata e approfittavamo delle panchine vuote lungo la strada per fumare sigarette prima di tornare a pellegrinare per le strette vie del centro. Mentre le parlavo di te e di tutti i tuoi viaggi pensai a quanto volessi essere altrove. Non in un posto preciso, semplicemente altrove.
«Ma hai idea di dove potrebbe essere?» mi chiese poco dopo essere saliti in macchina.
«No, l’ultima videochiamata la fece dal Giappone. Mi disse che voleva andare sul monte Fuji e poi puf! Non abbiamo più avuto sue notizie» le risposi guidando, con gli occhi occupati sulla strada. Non le dissi del tuo viso pallido o dei tuoi occhi stanchi. Non so perché, ma non lo feci.
Mentre la riaccompagnai a casa la conversazione girò principalmente su di te, raggiungendo spunti e riflessioni che avevo sempre ignorato, come la polvere sotto al letto. Contavo su di te, sai? Su quel coraggio che qui la gente confondeva con immaturità e incoscienza. È vero che spesso ti vendevi male ma io ti conoscevo. Ti conoscevo davvero, intendo. Volevi semplicemente allontanarti da questa continua guerra tra poveri, a chi si accaparra il posto più in alto, il più grande o il più spazioso. Ai tempi non lo capivo, non potevo. Poi sei sparito e, non saprei come spiegartelo, ma in me è svanita quell’idea che un altro modo di vivere esista davvero. Insomma, che c’è questo e basta, capisci? Non so se il tuo fosse un modo migliore o peggiore di vivere, ma almeno quando eri ancora qua, quando videochiamavi o mi scrivevi, un’alternativa c’era ancora. Non volermene, ma cancellarti – anche se ogni tanto o solo per un po’, - era il modo più efficace che avevo trovato per non sentirmi in quella trappola che è il mondo da cui cercavi di scappare. Ogni parola, ogni frase, pure queste mi sembrano solo un mucchio di cazzate. Ecco, l’ho detto.
Io e Clarissa ci appartammo in un parcheggio prima che la riaccompagnassi a casa. Ci baciammo e basta, io provai ad ottenere qualcosa di più e trovai il suo evitarmi incredibilmente tenero e genuino, e la sigaretta che fumammo davanti al suo portone mi sembrò la cosa migliore che avremmo potuto fare quella sera. Mi salutò con l’ennesimo bacio e quando parcheggiai la macchina trovai un suo messaggio sul telefono.
Non so perché, ma quella sera fu quasi spontaneo controllare la casella della posta. Cosa che non faccio mai. Come se sapessi che qualcosa fosse lì ad aspettarmi. All’interno c’era solo un biglietto scritto un po’ in inglese e un po’ con gli ideogrammi giapponesi. Era un contrassegno di un pacco da ritirare proveniente da Fukushima.
Non ti nego che pensai immediatamente al tuo cadavere e al mucchio di scartoffie che avrei dovuto firmare. Scrissi immediatamente a Clarissa, che menzionò subito il destino e tante altre cose a cui è bello credere. È brutto da dire, ma ti mentirei se dicessi diversamente, era passato così tanto tempo da quella tua ultima videochiamata e così tanto difficile dimenticarti che la mia più grande paura fu ricevere un tuo segnale di vita. Insomma, che un’alternativa a questo immenso alveare esiste davvero. Un ve l’avevo detto grande e grosso come una casa.
Il giorno dopo andai all’ufficio postale scritto sul contrassegno e Clarissa insistette tanto ad accompagnarmi, forse più per curiosità che per farmi forza. Quando arrivò il mio turno lei mi stringeva forte il braccio, avresti dovuto vederla, e ci stupimmo entrambi quando trovammo una tua lettera. Era tutta stropicciata ed era impossibile sapere i giri che doveva aver fatto prima di averla tra le mani.
«Aprila dai.» disse curiosa non appena salimmo in macchina.
Sospirai un ok non troppo convinto e strappai la busta per vedere cosa ci fosse al suo interno. Trovai la scritta Per Gabbo, il nomignolo con cui solo tu eri solito chiamarmi, e – non prendermi in giro, - ma mi venne immediatamente da piangere.
«Vedi, è per te,» disse Clarissa per incoraggiarmi.
Aprii il biglietto e non ci trovai altre scritte, solo un gettone rosso con su la scritta: Laundry shop Fukushima 19c.
«Ma che significa?» mi chiese Clarissa visibilmente presa da un’incredibile voglia di avventura.
«Non ne ho la più pallida idea»